La pace

Oggi voglio fare poco. Posso fare poco. Ma tra il “poco” e il “niente” c’è un abisso.
“Il niente ci chiude nella gabbia della noia, dell’egoismo, della disperazione. Il poco è un passo sulla via della solidarietà, un saggiare la strada, un provare a noi stessi che siamo ancora giovani (o quasi!).. Il niente ci abbandona nelle mani dell’abisso; il poco ci apre spiragli di libertà, ci indica che forse potremmo fare qualcosa di più. Per questo, nel momento in cui viviamo, una finestra che si adorna della bandiera della pace, la partecipazione a una manifestazione, la decisione di non acquistare più il carburante della Esso, il tentativo di ritardare un convoglio che trasporta strumenti di morte, una notizia taciuta dalla televisione e fatta circolare tra gli otto milioni e mezzo di italiani che hanno soltanto quella fonte di informazione, tutto questo “poco”, moltiplicato per milioni, è di estrema importanza per la Terra e per la pace” (Ettore Masina).
Molto probabilmente lascerò un mondo peggiore di quello che ho trovato, sotto molti punti di vista. Probabilmente lascerò anche un’Italia peggiore, con italiani peggiori di quelli che mi hanno visto nascere e mi hanno educato.Probabilmente non avrò mai la possibilità di fare qualcosa di importante, di migliorare alcunché. Però sono convinto che sia una mia responsabilità riuscire a preservare per quanto possibile il buono che ho trovato, che ho ereditato così, senza alcuno sforzo, senza alcun merito. Sono nato nella pace e voglio preservare la pace. Questo è il “poco” che oggi mi prefiggo.

Una goccia di verità

La prima vittima di ogni guerra è la verità. 
In questi giorni convulsi, in cui l'essere umano sembra essere allo sbando, perso nella dualità, nella guerra, nelle guerre, i versi di Francesco Pariset, così semplici, ma così penetranti, risuonano in tutta la loro bellezza. 
Basterebbe una goccia di coscienza per riequilibare tutto. 
E questo canto la invoca, come una danza della pioggia, sull'aridità del nostro cuore. 

Aria vita, aria sole
che cura, che purifica
il vento sapiente dell'amore
Aria vita, aria sole
che cura, che purifica
le viscere del mio cuore
Una goccia di verità, una goccia di coscienza
pioggia fresca nel cammino.
Una goccia di verità

Aire vida aire sol 
curando, purificando 
viento sabio del amor 
Aire vida, aire sol 
curando, purificando 
las entrañas de mi corazón 
Una gota de verdad, una gota de consciencia 
lluvia fresca al caminar 
Una gota de verdad
(F. Pariset)

Lasciati amare

Lasciati amare
così come sei
lascia che il cuore
si apra al cuore
di chi ti ama
Così come sei
così come sei
così come sei
Lascia che il cuore
si apra al cuore
di chi ti ama

Madri

Tu mi portavi qui in ogni stagione
E un’altra madre mi chiamava a sè
con la tua voce:
la madre terra,
in cui ci mescoliamo, ci confondiamo e non sappiamo
se siamo pollini nel vento 
o tronchi eterni
fatti per dare ombra ai viaggiatori

Terra! Ovvero il diritto di essere felice

Ogni mattina mi sveglio ed esercito il mio diritto di essere felice.

Sono nato in un Paese libero e ringrazio sempre chi ha vissuto e combattuto perché fosse libero.

Vivo in un Paese democratico, dal clima mite, e con un’economia abbastanza solida.

In misura variabile in base al periodo, ai limiti di bilancio, alla classe politica che ci governa posso dire però che ho diritto

a una casa,

al lavoro,

alla salute,

all’istruzione.

Ho il diritto di passeggiare mano nella mano con la mia compagna. O con il mio compagno.

O con entrambi!

Perché ho il diritto di essere chi sono. Che è la base del mio diritto alla felicità.

Ho il diritto di ascoltare la musica, in casa, per strada…

Ho un cellulare che mi connette col mondo e con degli amici.

Ho un blog, un profilo facebook, un account su instagram e sempre, in ogni occasione, posso esprimere la mia opinione, anche se non coincide con quella dei potenti.

Ho diritto a dei giorni di riposo, e di stare a casa se sono malato.

Ho il diritto di vaccinarmi per impedire una malattia.

E anche di non farlo.

Ho il diritto di espandere la mia coscienza, di crescere, di diventare una persona migliore.

Ogni giorno, ogni ora io posso esercitare il mio diritto di essere felice, di stare al mondo, di respirare, di sognare

Ma oggi mi è tornato in mente un episodio.

Uno di quei fatti che in genere durano un giorno o due nel dibattito pubblico: emozionano, indignano, diventano trending topic, e poi svaniscono nel nulla, senza cambiarci mai veramente.

Eppure oggi mi è tornato in mente.

È la storia di quel ragazzo di 14 anni morto annegato mentre tentava di attraversare il mediterraneo e la storia della sua pagella, con i voti delle materie scritte in arabo e francese, piegata con cura, ricucita nella sua giacca, e ritrovata sulla riva.  

Con quanto orgoglio, con quanta speranza quella pagella è stata cucita nella sua giacca, accanto alle cose più preziose.

Io vivo in un Paese libero e posso esercitare oggi giorno il mio diritto di essere felice, ma non è così per tutti.

Su questa Terra meravigliosa ci sono luoghi che noi uomini abbiamo reso inospitali per lo stesso genere umano.

Ci sono terre con climi diventati ostili.

Terre insanguinate delle guerre.

Terre inaridite da dittature e totalitarismi.

Terre avvelenate da estremismi religiosi.

Sono terre in cui non puoi esercitare il tuo diritto di vivere felice.

Non puoi essere felice.

Non puoi essere.

È allora che le tue radici escono per cercare altra terra.

La Terra!

Quella col punto esclamativo alla fine, quella che è una speranza, una dolce promessa, un ritorno a casa, mentre lasci la casa.

È la stessa Terra che ti ha nutrito e che ora ti richiama a sé, anche se altrove, pur di consentirti di vivere il tuo diritto di essere felice

Penso alla madre che ha cucito la pagella su quella giacca. Penso al ragazzo che l’ha indossata con orgoglio e con speranza. Penso al loro sacrosanto diritto di inseguire la felicità.

Ogni mattina mi sveglio e esercito il mio diritto di essere felice.

Ma come posso essere felice se al mondo esiste un altro essere umano che non può aspirare alla mia stessa felicità?

Un’avventura

Chiesero a Rumi, maestro spirituale persiano del tredicesimo secolo cosa fosse la paura, e lui rispose: “Cos’è la paura? La non accettazione dell’incertezza. Se accettiamo l’incertezza, diventa un’avventura.”

Riporto questa frase che ho scoperto proprio oggi perché credo che il fanatismo dilagante intorno ai vaccini e al green pass sia solo la conseguenza di questo fenomeno: la non accettazione dell’incertezza. Se riuscissimo almeno a comprenderlo ci verrebbe naturale rispettare la paura dell’altro, sia che abbia paura di ammalarsi di covid e riponga fiducia cieca nella “scienza”, sia che abbia paura di essere manipolato da un potere invisibile. La verità è che non abbiamo certezze, e le posizioni che difendiamo sono castelli di sabbia. Le urla nelle piazze, i pareri contraddittori dei virologi, i comunicati dell’AIFA, i commenti indignati sui post, i decreti del Governo sono come quel suono senza senso che si fa tappandosi le orecchie per non sentire. Cosa dovremmo sentire? Che la vita non è una cosa sicura e garantita. Sta a noi, come dice Rumi, farla diventare un’avventura.

Luna piena

Vivi nelle rose, nella magnolia, nel fico

vivi nell’iperico e nel ciclamino selvatico.

Vivi nel silenzio e nella voce.

Vivi nei nostri cuori e nelle nostre coscienze.

Sei la luna piena, mamma.

Sei la stella che ci guida

sui sentieri misteriosi di questa vita

Mam-ma

Magari non c’entra niente con la meravigliosa armonia che regola il rapporto delle creature su questo pianeta, ma la notizia della morte di mia madre, ieri, è stata accompagnata dalla fioritura della magnolia in giardino. Rami che si estendono verso le finestre del salone in cui è esposto il suo corpo, e che invadono di un odore intenso tutto lo spazio. Un profumo che sembra provenire proprio dal suo corpo, che per questo viaggio finale indossa una camicia che ha il colore e la consistenza di quel fiore.Oggi è l’ultimo giorno in cui mamma, seppure morta, coordina con sapienza i movimenti della casa, perché qui tutto parla di lei, dalla posizione degli oggetti, alla direzione che deve prendere il glicine in giardino. Così sta guidando anche i nostri movimenti per l’ultimo saluto: l’accoglienza, il comportamento da tenere, le regole da seguire. E’ l’ultimo giorno di questo governo materno. Dopo chissà cosa accadrà, chissà se avremo imparato abbastanza bene a stare al mondo.Questi giorni in cui l’abbiamo accompagnata nella sua lenta agonia sono stati un processo anche per noi figli, impotenti di fronte alla sua sofferenza. Abbiamo imparato che gli abbracci e le carezze sono più efficaci della morfina e che il suono del suo nome, che per noi è mam-ma, è un mantra di una potenza incredibile, capace di riportarci a una memoria fuori dal tempo, in cui tutto ha origine e a cui tutto torna. Se in principio era il verbo, il verbo era mam-ma. Se esiste un Dio, ha mammelle morbide e un ventre accogliente. E nello stesso tempo è un bambino che ha bisogno di cure. Abbiamo imparato a piangere con discrezione, in modo che lei non lo vedesse, non lo sentisse, e a mendicare ancora amore da quel corpo sofferente, che non ha mai smesso di fare i nostri nomi, di stringerci le mani, di baciarci con i baci più dolci e puri di sempre. Ciò che abbiamo vissuto come uno strazio, in realtà è stato un regalo immenso, estremo, doloroso, ma che ci accompagnerà per sempre. Come se ci avesse svelato d’un tratto il mistero della sua apparente severità, che era solo dolcezza trattenuta, perché in questo mondo serve anche il rigore, la responsabilità, la determinazione. Ma tutto deve nascere dall’amore e finire nell’amore. Le prime a renderle omaggio ieri sono state le sue colleghe, le insegnanti della scuola in cui ha lavorato per tanti anni, o meglio, come diceva lei, in cui “ha prestato servizio”. Ma mamma ha continuato a insegnare ogni giorno della sua vita, dovunque, e come solo i grandi Maestri sanno fare, cioè con l’esempio. Le cose da fare, e quelle da non fare. Senza proclami, senza giudizi. Un’intelligenza sopraffina, di quelle che non hanno bisogno di gesti eclatanti per affermarsi, che hanno superato la volgarità dell’ego e lavorano in silenzio per una causa più grande. La sua bellezza esteriore era il riflesso di questa virtù interiore. Una luce negli occhi, pura e buona. Perdonatemi se dico queste cose, era la mia madre amata, ma anche la mia rispettata Maestra.

A Firenze il degrado del “divertimento”

Il piccolo parco adiacente alla Pescaia di San Niccolò a Firenze era uno dei pochi luoghi di aggregazione sociale a ridosso del centro di Firenze fuori dai giri turistici e libero dalla pressione commerciale. Fino a quest’anno ci si poteva andare a passeggiare, fare yoga, Tai Chi, portare qualche strumento musicale, fare una merenda, un piccolo pic nic, o semplicemente meditare o prendere il sole. Una piccola oasi naturale di acqua, erba, alberi e animali, in cui il suono delle rapide dell’Arno si impone al rumore del traffico del lungarno Pecori Giraldi, distante solo pochi metri.
Ma quest’anno anche quello spazio – come già avviene da anni per il parco a ridosso del vicino Lungarno del Tempio – verrà occupato da ristorantini e bar mobili, organizzati con container in lamiera e pronti a offrire colazioni, aperitivi e cene a ritmo del reggaeton del momento.
A Firenze oramai sembra che ogni spazio pubblico debba essere commercializzato. L’idea che la socialità non passi necessariamente attraverso spritz e negroni non viene in mente agli amministratori pubblici, che parlano di cultura e di ecologia e poi invadono ogni piccolo microcosmo cittadino con cavi elettrici, luci, amplificatori, alcol e plastica.
Era proprio necessario occupare anche la Pescaia di San Niccolò?
Eppure nel 2010, quando con un blitz delle forze dell’ordine all’alba del 4 giugno, proprio lì accanto fu sgomberato il mercatino multietnico (autorizzato dieci anni prima), la vicecomandante della Polizia municipale Antonella Manzione, dichiarò che in quel luogo non si poteva vendere: “Siamo in un’area destinata impropriamente ad un’attività che qui non può essere svolta”, perché destinata a verde pubblico. Be’, allora si parlava di degrado. E questo cos’è?

La statistica, una scienza sacrificata sull’altare del Covid

A me sta bene appellarmi alla scienza. Ma quale scienza? Perché nel campo del Covid sono state schierate tante discipline: medicina, virologia, epidemiologia, infettivologia, chimica, tutte con una dignità propria da difendere e affermare, a volte a scapito delle altre. Ma una scienza in particolare, la statistica, è stata strumentalizzata solo per sorreggere l’una o l’altra causa, per avallare ipotesi o condizionare l’opinione pubblica, per indirizzare scelte politiche o scelte d’affari. In quest’ultimo anno è stata vilipesa, manipolata per ignoranza o per malafede. Una sorella povera, la statistica, ma intelligente, che se usata bene sarebbe in grado di mettere in riga le sorelle arroganti e meno intelligenti. Se dobbiamo appellarci a una scienza, allora, perché non alla statistica? Alla buona, onesta statistica, ovviamente.

A volte penso che se all’università avessi esposto i dati come hanno fatto e fanno la Protezione civile e l’Istituto Superiore della Sanità parlando di contagi e di curve di positivi, molto probabilmente mi avrebbero bocciato all’esame di Statistica. Ma forse lo avrebbero già fatto alle elementari, quando mi insegnarono a non sommare le mele con le pere. Ricorderete che nei primi mesi della pandemia venivano annunciati solo dati assoluti di nuovi contagi, descrivendo grafici per semplici sommatorie di casi, senza considerare il numero e la qualità dei tamponi effettuati: “oggi i nuovi positivi sono 1550!”, “oggi 1730!”, “oggi 300, perché è domenica!”. E giù di tabelle e grafici che “dimostravano” l’andamento del contagio. L’andamento del contagio! Dio mio. Poi, per non abusare troppo della nostra ignoranza, nella comunicazione è stato introdotto l’indice di positività, che calcola il numero di positivi sul totale dei tamponi effettuati, ma con la brillante idea di far decidere alle Regioni, in piena autonomia, cosa comunicare come numeratore e cosa come denominatore. Le Regioni adottano procedure legittime, ma non uniformi: la Sicilia, solo per fare un esempio, per una persona positiva al tampone rapido effettua un tampone molecolare, che se positivo incide nel data set come 2 tamponi effettuati per lo stesso positivo, riducendo così il tasso di positività comunicato, ma fornendo un’indicazione evidentemente errata.

Che dire poi della superficialità con cui vengono confusi concetti come “incidenza”, “frequenza” e “probabilità” quando si parla degli eventi indesiderati dei vaccini? Riviste e opinionisti per tranquillizzare sugli effetti avversi del vaccino non fanno che ripetere paragoni assurdi e confusi: “è più probabile morire attraversando i binari in una stazione”, “è più probabile avere una trombosi se sei iperteso, sovrappeso e fumatore e prendi l’aereo”, “è più probabile morire affogati nella vasca da bagno”, “è più probabile avere una trombosi a seguito di una pillola contraccettiva” e altri paragoni simili, con percentuali e indici ben in evidenza. Ma il punto è che non necessariamente milioni di italiani si mettono ad attraversare binari di un treno, (mentre volente o nolente il vaccino lo faremo in milioni) e i casi avversi di trombosi si sono verificati anche in soggetti non fumatori e sovrappeso, che magari hanno preso l’aereo decine di volte senza problemi. Molti una vasca non la vedranno mai in vita loro perché preferiscono la doccia, e una grande percentuale di soggetti la pillola anticoncezionale non la prenderà mai, perché maschio o in età non fertile. Questi paragoni sviliscono la statistica, che è una scienza umile, ma precisa.

Umile perché di servizio. Sa bene che quello che può offrire sono solo dati, elaborazioni o indicazioni, a volte aleatorie. Sa che la scelta della pallina bianca o della pallina rossa in un bussolotto, classico esempio di calcolo delle probabilità, riguarda le palline, non vite umane, ma fornisce il suo modello alla politica, che prenderà le decisioni più sagge -si spera -per le vite umane. Non ha l’arroganza di chi difende strenuamente una molecola, una diagnosi, una cura, salvo poi smentirsi un mese o un anno dopo. Perché le scienze – le altre scienze – sono fallibili: è il tempo, l’esperienza e lo studio che perfezionano molecole, diagnosi e cure. La forza delle scienze risiede proprio nella loro fragilità e nella coltivazione del dubbio, perché è ciò che le rende “progressive”. Il dubbio è quello che le distingue dalle teorie complottistiche. Il tempo e l’esperienza, invece, sono variabili che la statistica maneggia con onestà e lucidità per supportarle nella loro ricerca, nella loro abilità.